Direttiva SUP

Decreto plastica monouso, normativa europea, economia circolare: alcune semplici domande

Sinossi

Con il decreto legislativo 196 del novembre 2021, il governo italiano ha dato attuazione alla direttiva europea cosiddetta “SUP” (Single Use Plastic). Alcune specifiche parti del decreto, però, destano perplessità. Per la precisione, più che un’attuazione, queste disposizioni costituirebbero una sostanziale violazione della direttiva. In particolare, questo vale per l’esclusione di alcuni materiali e prodotti dall’ambito di applicabilità del decreto (e, quindi, della direttiva stessa); pur essendo le stesse motivate dall’evidente intento di tutelare una produzione italiana di grande rilievo quali le bioplastiche. Comunque, la Commissione Europea non ha mancato di formalizzare al governo italiano precise osservazioni critiche al decreto in un parere circostanziato del dicembre 2021. Pertanto, date queste (e altre) incongruenze del provvedimento – e del complessivo operato governativo in questa vicenda – rispetto alla legislazione europea, è il caso di porre alcune domande di fondo, di possibile interesse dell’opinione pubblica di questo Paese; specie di quella più europeista e sensibile alle sorti della tutela ambientale e dell’economia circolare.

Indice

  1. Plastica monouso e rifiuti, normative europee collegate con un unico obiettivo: l’economia circolare

  2. La legislazione italiana di recepimento della direttiva SUP – Ovvero un modo discutibile di garantire l’obbligo di risultato

  3. Il parere circostanziato della Commissione Europea

  4. Qualche domanda conclusiva

1) Plastica monouso e rifiuti, normative europee collegate con un unico obiettivo: l’economia circolare

Capita che, nel 2019, l’Unione Europea approvi una direttiva – la n. 904 – per ridurre l’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente: è la cosiddetta “direttiva SUP” (Single Use Plastic, quella monouso).

In quella direttiva, la prima definizione è proprio quella di “plastica”, naturalmente: “il materiale costituito da un polimero […] cui possono essere stati aggiunti additivi o altre sostanze, e che può funzionare come componente strutturale principale dei prodotti finiti, a eccezione dei polimeri naturali che non sono stati modificati chimicamente”.

Ma ancora più significativa, rispetto alla stessa ragione d’essere della direttiva, è la seconda definizione, quella di “prodotto di plastica monouso”: “il prodotto fatto di plastica in tutto o in parte, non concepito, progettato o immesso sul mercato per compiere più spostamenti o rotazioni durante la sua vita essendo rinviato a un produttore per la ricarica o riutilizzato per lo stesso scopo per il quale è stato concepito.

Qual è il concetto sottostante? E’ chiarissimo: l’Unione Europea preferisce i prodotti concepiti, progettati o immessi sul mercato per compiere più spostamenti o rotazioni durante la sua vita, per essere rinviati ai loro produttori per la ricarica e\o per essere riutilizzati per lo stesso scopo per il quale sono stati concepiti.

Si chiama “economia circolare”, e tra i tanti suoi meriti ce ne ha uno in particolare: è il modello economico che più garantisce l’attuazione della cosiddetta “gerarchia dei rifiuti”, ossia “l’ordine di priorità della normativa e della politica (dell’Unione Europea, ndr) in materia di prevenzione e gestione dei rifiuti”, sancita in un’altra fondamentale direttiva UE del 2008, quella che costituisce le basi giuridiche in materia di rifiuti.

Qual è il vertice di quella gerarchia, secondo la direttiva del 2008? Proprio la prevenzione, per l’appunto, ossia la riduzione dei rifiuti. Solo dopo questa, saldamente al primo posto, vengono, nell’ordine: preparazione per il riutilizzo; riciclaggio; recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia; e smaltimento.

E chi afferma che l’economia circolare avrebbe un rapporto privilegiato con una ottimale gestione dei rifiuti, ossia quella che punta anzitutto alla prevenzione? Ma la stessa Unione Europea, che in un’altra nodale direttiva del 2018 (che modifica quella del 2008) sui rifiuti – facente parte di un “pacchetto” di quattro direttive tutto dedicato alla stessa economia circolare – afferma che “la gestione dei rifiuti nell’Unione dovrebbe essere migliorata e trasformata in una gestione sostenibile dei materiali per salvaguardare, tutelare e migliorare la qualità dell’ambiente, proteggere la salute umana, garantire un utilizzo accorto, efficiente e razionale delle risorse naturali, promuovere i principi dell’economia circolare”. E ancora: “migliorando l’efficienza nell’uso delle risorse e garantendo che i rifiuti siano considerati una risorsa si può contribuire a ridurre la dipendenza dell’Unione dalle importazioni di materie prime nonché agevolare la transizione a una gestione più sostenibile dei materiali e a un modello di economia circolare.

Sono i primi due “considerando”, ossia le basi logiche e teleologiche (gli obiettivi, in parole semplici), della direttiva 851\2018 relativa ai rifiuti.

Quindi, per ricapitolare,

  1. dal 2008, in cima all’ordine di priorità della normativa e della politica dell’Unione Europea in materia di gestione dei rifiuti c’è la prevenzione \ riduzione;

  2. l’economia circolare è il modello economico che, tra l’altro, crea le condizioni per una gestione ottimale dei rifiuti, all’insegna dell’ordine di priorità su citato, che vede in cima la prevenzione \ riduzione; in quanto tale, deve essere applicato in ogni ambito economico – produttivo;

  3. di conseguenza, l’economia circolare deve permeare anche il variopinto mondo delle plastiche. Infatti, all’articolo 1 della direttiva del 2019 da cui siamo partiti, si afferma che “gli obiettivi della presente direttiva sono prevenire e ridurre l’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente, in particolare l’ambiente acquatico, e sulla salute umana, nonché promuovere la transizione verso un’economia circolare con modelli imprenditoriali, prodotti e materiali innovativi e sostenibili, contribuendo in tal modo al corretto funzionamento del mercato interno.

E con questo si chiude il cerchio – per rimanere in tema – della complessiva legislazione europea in materia di plastica, economia circolare, rifiuti.

2) La legislazione italiana di recepimento della direttiva SUP – Ovvero un modo discutibile di garantire l’obbligo di risultato

In forza della direttiva SUP, gli Stati membri dell’Unione, pur avendo libertà di forme e di metodi, hanno l’obbligo di garantire il serio perseguimento degli obiettivi che si sono citati al punto 3) del paragrafo precedente.

E’ il cosiddetto “obbligo di risultato” che grava sugli Stati membri nei confronti di una direttiva UE; e tra loro c’è anche l’Italia.

Per adempiere quell’obbligo, il governo italiano emanava nel novembre scorso un decreto legislativo, il numero 196.

Si sorvola in questa sede sul rispetto (si fa per dire), nell’occasione, da parte dell’esecutivo italiano della normativa e della relativa tempistica previste dalla direttiva del 2015, la n. 1935, in materia di “procedura d’informazione nel settore delle regolamentazioni tecniche”.

Per andare, in estrema sintesi, al merito di alcune tra le principali disposizioni del decreto legislativo, il governo non si limitava a riprendere le previsioni della direttiva per darle una banale applicazione: il made in Italy legislativo ha poco da invidiare alle vette più alte della nota e ubiqua creatività italiana. Specie quando ci sono alcune eccellenze italiane da tutelare nei confronti della regolamentazione comunitaria: come le bioplastiche, per dire.

Un’immaginazione normativa che ha portato a introdurre nel decreto legislativo alcune deroghe e soglie, a partire proprio dalla fondamentale categoria da cui siamo partiti, quella di plastica: “sono esclusi dalla presente definizione materiali quali vernici, inchiostri, adesivi nonché rivestimenti in plastica aventi un peso inferiore al 10 per cento rispetto al peso totale del prodotto, che non costituiscono componente strutturale principale dei prodotti finiti”. L’esclusione dalla definizione comportava l’ovvia conseguenza di tenere indenni quei materiali e quei prodotti dall’ambito di applicazione del decreto stesso, ma soprattutto della direttiva europea. Il che costituiva la limpida finalità del legislatore governativo.

3) Il parere circostanziato della Commissione Europea

La Commissione Europea non ha apprezzato.

ll riscontro è arrivato puntuale nella forma di un parere circostanziato a firma del commissario europeo al Mercato interno, Thierry Breton.

Il parere chiarisce in maniera difficilmente confutabile i motivi del contrasto manifesto tra le disposizioni del decreto legislativo italiano e la direttiva che, formalmente, esso avrebbe dovuto attuare, a partire proprio dalle fondamentali questioni delle definizioni: di “plastica” e di “prodotto di plastica monouso”.

Delle norme italiane che hanno introdotto le esclusioni riportate, la Commissione contesta proprio l’interpretazione creativa operata nei confronti della direttiva, ribadendo che le definizioni condivise a livello europeo della plastica monouso “non impongono alcuna soglia per la quantità di plastica da includere nel prodotto affinché possa essere considerato un prodotto di plastica monouso.” Il commissario rincara la dose rammentando che non vi sono altri elementi nella direttiva, né nella storia legislativa, che indichino che tali definizioni dovrebbero essere interpretate in modo tale da richiedere una percentuale minima di contenuto di plastica per costituire un prodotto di plastica monouso”. E, secondo il parere, la misura italiana può condizionare arbitrariamente il mercato interno dato che tale soglia del 10% esclude dal campo di applicazione delle norme sui prodotti di plastica monouso determinati prodotti che sarebbero inclusi in tale ambito senza tale soglia quantitativa”.

Sulla deroga per le bioplastiche, cui pure si faceva riferimento sopra, il commissario chiarisce che “la direttiva Sup non prevede alcuna eccezione per la plastica biodegradabile. Al contrario, prevede esplicitamente che la definizione di ‘plastica’ contenuta nella direttiva dovrebbe comprendere la plastica a base organica e biodegradabile, a prescindere dal fatto che siano derivati da biomassa o destinati a biodegradarsi nel tempo. Pertanto, tale plastica biodegradabile è considerata come qualsiasi altra plastica“.

Seguono ulteriori censure alla normativa italiana, come quella che prevede il credito d’imposta verso le imprese che promuovono l’acquisto di materiali e prodotti alternativi alla plastica monouso.

4) Qualche domanda conclusiva

Sul parere contrario della Commissione UE al decreto legislativo italiano, le opinioni sono diverse. In particolare, si segnala una corrente che, in estrema sintesi, condivide la necessità di contrastare il monouso, anche come centrale elemento di sostegno all’economia circolare, obiettivo principale di tutta la normativa in questione, come visto. Ma, al contempo, afferma anche con forza la sostanziale diversità delle bioplastiche dalle normali plastiche, anche e soprattutto sotto il profilo dell’impatto ambientale, e quindi l’opportunità di riservare alle stesse una disciplina ad hoc, ossia di esclusione dall’ambito di azione del decreto legislativo 196 e, quindi, della direttiva Sup.

Al netto delle consuete vulgate sulle eccellenze italiane che, in quanto tali, dovrebbero sistematicamente beneficiare di un’esenzione dal diritto comune europeo e, quindi di una normativa ad hoc – pretese che, per la ciclicità con cui si susseguono in vari ambiti, iniziano a diventare un filo sgradevoli – le posizioni da ultimo ricordate sulle bioplastiche paiono avere un loro fondamento.

Ma questo, se possibile, aggrava il problema creato con l’approvazione del decreto legislativo di novembre scorso, sintetizzabile oggi, dopo l’emissione del parere circostanziato, in questi termini: in forza delle limpide previsioni della direttiva n. 1535 del 2015 cui si è accennato, il governo italiano avrebbe dovuto rinviare l’adozione del provvedimento in questione di sei mesi a partire dalla comunicazione dello schema di decreto legislativo alla Commissione Europea. Quindi, fino al 23 marzo 2022.

A questo punto, dato che il decreto è entrato comunque in vigore – con buona pace della direttiva 1535 – entro quella data l’esecutivo dovrebbe almeno fornire alla Commissione Europea spiegazioni sulle ragioni che legittimano la normativa nazionale che stiamo analizzando; in particolare, sulle esclusioni fin qui esaminate.

E dovrebbero essere spiegazioni assai convincenti, tanto da scongiurare il pericolo, tutt’altro che astratto, di una procedura d’infrazione a carico dell’Italia per violazione dell’ormai nota direttiva.

Insomma, per quanto illustrato sopra, per questo Paese è un problema che nasce con la stessa direttiva SUP.

Un problema di metodo, prima ancora che di merito.

Un problema che investe in pieno lo stesso modo di “stare in Europa” di questo Paese.

Un problema che è sintetizzabile in alcune semplici domande.

  1. Se una direttiva europea – come la SUP – che equipara in toto plastiche normali e bioplastiche è così manifestamente irrazionale nei suoi stessi fondamenti, come mai è stata approvata dal Parlamento europeo con 560 voti a favore, solo 35 contrari e 28 astenuti?

  2. E se essa è anche altrettanto chiaramente lesiva degli interessi di un segmento industriale tra i più avanzati tecnologicamente e virtuosi ambientalmente di un Paese membro (uno a caso), come e perché hanno votato i vari europarlamentari di quel Paese?

  3. Una volta che quella direttiva è stata approvata, per quanto incongrua possa essere sotto i profili su citati, quanto è utile, quanto è serio che il governo di quel Paese cerchi di eludere il problema violando norme su norme (non solo quelle della direttiva SUP in questione, ma anche di quella del 2015 in materia di procedura d’informazione nel settore delle regolamentazioni tecniche) dell’ordinamento dell’Unione di Stati di cui fa liberamente parte?

  4. Quanto giova questo tipo di comportamento alla causa europea?

  5. E se esso viene analizzato in combinato disposto con varie altre parole, opere e soprattutto omissioni di questo governo in materia ambientale (dalle questioni energetiche ai pesticidi, dall’inquinamento dell’aria alle bonifiche) che prospettive reali di sviluppo ha l’economia circolare, per non dire la stessa transizione ecologica in questo Paese?

23\2\2022

Stefano Palmisano

Per consulenze in materia di normativa dell’economia circolare: palmi.ius@avvstefanopalmisano.it