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Fine rifiuto: lezioni da una sentenza

Quanto sono consapevoli, tanti operatori economici che gestiscono rifiuti, del concetto di “fine rifiuto”? Quanti degli imprenditori interessati conoscono in modo adeguato la relativa normativa, i limiti che pone, le sanzioni che comporta? A queste domande la giurisprudenza in materia di “end of waste” fornisce risposte assai interessanti. Di seguito, il racconto di una sentenza di Cassazione emblematica in questo senso.

Indice

La vicenda: rifiuti in libera uscita

Il ricorso per Cassazione degli imputati: oggetti non rifiuti 

Fine rifiuto: lezioni da una sentenza

Fine rifiuto: un principio consolidato, un equivoco diffuso

Fine rifiuto: una sentenza, un utile promemoria

Ultima notazione: la responsabilità diretta delle aziende

 

La vicenda: rifiuti in libera uscita

Il tribunale di Brescia condanna due persone per avere, al fine di conseguire un ingiusto profitto, organizzato dapprima lo stoccaggio e quindi il carico ed il trasporto su appositi containers diretti verso località site in diversi Stati africani di un’ingente quantità di rifiuti, pericolosi o meno, fra i quali vi erano rifiuti elettrici ed elettronici, pneumatici fuori uso, batterie fuori uso e materiali ferrosi in genere.

Il reato è quello di “attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti1

La Corte d’appello conferma la sentenza di condanna.

 

Il ricorso per Cassazione degli imputati: oggetti non rifiuti

Gli imputati ricorrono per Cassazione.

Il motivo di ricorso più significativo ai fini di questo articolo è il secondo: secondo la difesa, si sarebbe trattato di merce destinata ad essere impiegata in attività produttive presso tale continente.

In sostanza, non si sarebbe trattato di rifiuti, ma di oggetti commerciabili a tutti gli effetti. Per questa ragione, non sarebbe stato applicabile il reato di traffico di rifiuti.

 

Fine rifiuto: lezioni da una sentenza

La Cassazione rigetta del tutto questa argomentazione difensiva2.

Il Supremo Collegio ricostruisce la vicenda sotto il profilo giuridico partendo dalla nozione di rifiuto.

Ricorda che essa ha natura normativa: in pratica, è la legge che decide cosa sia rifiuto e cosa no.

Più precisamente, è sempre il cosiddetto Testo Unico Ambientale, in una sua norma,3 a sancire che costituisce rifiuto qualsiasi oggetti di cui il detentore si sia disfatto ovvero abbia l’obbligo o l’intenzione di disfarsi.

I Giudici della Corte d’appello, quindi, hanno correttamente attribuito questa qualifica ai beni rinvenuti nella disponibilità degli imputati e da costoro gestiti tramite il loro periodico trasferimento all’estero. Questo sulla base del fatto, obbiettivo, che si trattava di materiali in disuso o deteriorati o persino non più oggetto di possibile commercializzazione ed utilizzazione nel territorio nazionale.

Fondamentale il principio affermato subito dopo dalla Suprema Corte: “la circostanza che i beni in questione potessero avere tuttora un qualche valore commerciale ovvero fossero suscettibili di essere riparati e riutilizzati al di fuori dell’Italia, non è in contraddizione con la attribuzione al medesimi della qualifica di rifiuto, posto che è circostanza del tutto irrilevante il fatto che si tratti di beni cui possa essere stato dato, ovvero che obbiettivamente abbiano conservato, un residuo valore commerciale.”

E, a seguire, si indicano i vari precedenti giurisprudenziali che hanno sancito lo stesso principio di diritto.4

Il passaggio successivo della Cassazione è limpido: è “indubbio che anche il rifiuto sia una merce e che, come tale, essa possa essere oggetto di transazioni commerciali. E’, tuttavia, altrettanto indubbio che per lo svolgimento di esse, quale che possa essere la successiva destinazione impressa ai beni in questione (destinazione che non esclude il loro possibile riutilizzo a seguito di processi industriali o artigianali di ricondizionamento), è necessario che il soggetto che le compie sia dotato delle necessarie autorizzazioni relative alla gestione di tale particolare tipologia merceologica.”

Ma il punto fondamentale di questa sentenza ai fini di questo articolo è quello che chiude l’analisi della Suprema Collegio di questo motivo di ricorso dell’imputato. Vi si afferma, infatti: “nè appare che agli oggetti nel cui possesso sono stati trovati i due attuali ricorrenti sia applicabile la disciplina5 […] in tema di cessazione della qualifica di rifiuto.

Infatti, quest’ultima “prevede che, affinchè il bene o la sostanza perda questa qualifica, è necessario che la stessa sia stata preventivamente sottoposta ad un’operazione, di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo, che – sebbene le stesse possano consistere anche in operazioni di cernita e di selezione di beni6fin tanto che non si sono esaurite non comportano né la cessazione della qualifica di rifiuto ai beni in questione né, tantomeno, la estraneità di essi alla disciplina in materia di rifiuti.7

Nel caso in esame”, conclude la Suprema Corte il suo stringente ragionamento, “queste operazioni, fosse pure volte a selezionare i beni sulla base della loro specifica tipologia, non risultano essere state compiute.” Infatti, le merci erano “in via di spedizione verso oltremare da parte dei due imputati genericamente stoccate sul piazzale […] del quale gli stessi avevano la disponibilità e, quindi, una volta caricate su containers, inviate all’estero senza che di di essi fosse stata compiuta, prima della loro partenza, alcuna preventiva operazione di recupero, tale da far ritenere che essi non fossero più da considerare8 come rifiuti.9

 

Fine rifiuto: un principio consolidato, un equivoco diffuso

Insomma, i rifiuti spediti, o comunque commercializzati, tal quali restano rifiuti. Queste operazioni, svolte in assenza di ogni autorizzazione del caso, quindi, risultano illegali e sanzionabili penalmente.

Il principio di diritto sulla cessazione della qualifica di rifiuto riferito dianzi è sostanzialmente lo stesso affermato più di recente dalla stessa Corte di Cassazione in altre sentenze delle quali mi sono occupato in un altro articolo su questo blog.

Questo offre l’occasione per qualche considerazione finale sull’ “end of waste” e, soprattutto, sulla sua percezione da parte di tanti operatori economici che gestiscono rifiuti.

E’ evidente che in molti casi questa “percezione”, per chiamarla così, è deviata. O, per dirla tutta, è lo stesso concetto e la relativa normativa di “cessazione della qualifica di rifiuto” a essere fortemente equivocati; quando non proprio ignorati del tutto.

Tanti – anche nell’esercizio di un’impresa, il che rende la cosa un filo più grave – ritengono di poter maneggiare i rifiuti con grande scioltezza, spesso sulla base di personalissime convinzioni per cui in realtà non si tratterebbe di rifiuti, ma di oggetti o merci normali che, in quanto tali, sarebbero gestibili con la massima libertà, anche sotto il profilo commerciale. Senza porsi particolari problemi in materia di autorizzazioni, normativa, sanzioni ecc…

 

Fine rifiuto: una sentenza, un utile promemoria

Ebbene, sentenze come quella raccontata in questo articolo hanno la grande utilità di fungere da promemoria per gli operatori economici: un rifiuto cessa di essere tale solo dopo esser stato sottoposto, in maniera puntuale, al procedimento disciplinato dalla normativa di riferimento, più

volte citata nel corso dell’articolo: quella del TUA.10

Prima di quel momento, l’oggetto in questione sarà sempre e comunque da qualificarsi, ma soprattutto da trattarsi, come rifiuto.

Ogni deviazione da questa retta via comporterà, in modo difficilmente eludibile, la sua naturale conseguenza: l’imputazione e, con buona probabilità, la condanna penale; nella più blanda delle ipotesi per il reato di “attività di gestione di rifiuti non autorizzata” o di “deposito incontrollato di rifiuti11. Ma, come si è visto, agli imputati del processo analizzato in questo articolo è andata peggio, dato che sono stati condannai per il ben più grave reato di “attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti”.

 

Ultima notazione: la responsabilità diretta delle aziende

Una precisazione finale: quelli esaminati sono tutti Illeciti penali nei quali le conseguenze sanzionatorie sono serie anche e soprattutto perché non riguardano solo le persone fisiche che hanno commesso i reati, ma anche la stessa azienda che viene chiamata a rispondere con il suo patrimonio delle sanzioni pecuniarie e\o interdittive previste dalla legge sulla cosiddetta responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche.

A meno che la stessa impresa non abbia adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione gestione e controllo finalizzato proprio a minimizzare il rischio di commissione di determinati reati al suo interno (altro tema nevralgico sul quale si tornerà per esteso a breve).

Proprio come nel caso dei sottoprodotti12 e di vari altri reati ambientali relativi all’esercizio d’impresa.

E’ un elemento che chiunque abbia la responsabilità di un’impresa dovrebbe tenere nella giusta considerazione.

6\6\2022

                                                                                                                                                                                          Avv. Stefano Palmisano

 

Contattami per consulenze e assistenza legale in materia di fine rifiuto: palmi.ius@avvstefanopalmisano.it  

 

1Già previsto dall’art. 260 del Decreto legislativo 03/04/2006, n. 152 (cosiddetto Testo Unico Ambiente – TUA), oggi dall’art. art. 452-quaterdecies del codice penale.

2Cass. pen., Sez. III, Sent., (data ud. 14/11/2019) 26/02/2020, n. 7589

3D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 183

4Corte di cassazione, Sezione III penale, 6 febbraio 2017, n. 5442; ma già: Corte di cassazione, Sezione 17 aprile 1991, n. 4362, in cui si legge che non vi è contrasto fra la nozione di rifiuto e la attribuzione ad esso di un valore economico)

5“Prevista dal Decreto Legislativo n. 152 del 2006, art. 184-ter.

6Così, di recente, Corte di cassazione, Sezione III penale, 2 luglio 2018, n. 29652

7Si veda, infatti, sul punto, il D.Lgs. n. 152 del 2006, citato art. 184-ter, comma 5

8Ai sensi del citato art. 184-ter del D.Lgs.

9Per una ricostruzione del meccanismo di funzionamento dei criteri “end of waste” (limitata alla regione Toscana, ma utile come esempio anche più in generale), vd. https://greenreport.it/news/economia-ecologica/come-funziona-lapplicazione-dei-criteri-end-of-waste-in-toscana-spiegato-da-arpat/ Per un’analisi critica delle novità apportate dal cosiddetto “decreto semplificazioni” al sistema dei controlli sul rilascio delle autorizzazioni caso per caso, sempre in materia di fine rifiuto, vd. http://www.riciclanews.it/news/end-of-waste-gli-operatori-altro-che-semplificazione-e-un-appesantimento_14101.html

10Si tratta sempre dell’articolo 184 ter, Decreto Legislativo n. 152\2006, come si sarà intuito.

11Previsti e puniti dall‘art. 256 TUA.