Fanghi depurazione, sottoprodotti, normale pratica industriale

Fanghi di depurazione e sottoprodotti: lo scoglio della normale pratica industriale

Una provincia chiede al Ministero dell’ambiente se un un determinato fango di depurazione possa essere gestito come sottoprodotto o debba comunque esser trattato come rifiuto e, di conseguenza, se occorrano le autorizzazioni di legge per il relativo trattamento. Il Ministero risponde che la natura del trattamento in questione potrebbe risultare incompatibile con la “normale pratica industriale” vigente in quest’ambito. L’ennesima conferma della criticità di questo concetto rispetto alla concreta praticabilità, in molti casi, dell’istituto dei sottoprodotti e, quindi, della stessa economia circolare.

Indice

  1. Fanghi di depurazione e sottoprodotti: l’istanza di interpello

  2. La risposta del Ministero

  3. Fanghi di depurazione e sottoprodotti: lo scoglio della normale pratica industriale

  4. La normale pratica industriale nell’interpretazione (molto diversa) della Commissione Europea

 

 

1) L’istanza di interpello

Ricevo sollecitazioni a trattare il tema, di suo parecchio spinoso, dei fanghi di depurazione, in particolare del loro rapporto con i sottoprodotti.

Probabilmente, darò seguito concreto a questi inviti a breve.

Intanto, è il caso di esaminare, in modo sintetico, una vicenda significativa sul punto, anche perché di pochi giorni fa.

Con istanza di interpello formulata ai sensi dell’articolo 3-septies del decreto legislativo 3 aprile

2006, n.152, la Provincia di Lecce richiedeva un’interpretazione della vigente normativa in materia ambientale sui seguenti aspetti:

1) la corretta classificazione del trattamento, consistente nell’attività di estrazione dal processo

depurativo delle acque reflue urbane di fango cellulosico da destinare per attività di

produzione di conglomerato bituminoso, quale attività diretta al “riutilizzo di sottoprodotto”

del processo depurativo o, viceversa, attività di “recupero di rifiuto”;

2) l’eventuale assoggettabilità ad un regime autorizzatorio, ai sensi dell’articolo 208, comma 15

ovvero dell’articolo 211 del d.lgs. 152/2006, dell’attività di trattamento sopra descritta.

 

2) La risposta del Ministero

Nella sua risposta, il Ministero sviluppa una serie di preliminari considerazioni in diritto.

In particolare, evidenzia che “la vigente normativa, dunque, non prevede un “elenco” di materiali qualificabili alla stregua di sottoprodotti, né un elenco di trattamenti ammessi sui medesimi in quanto costituenti “normale pratica industriale”, dovendo comunque essere rimessa la valutazione del rispetto dei criteri indicati dall’art. 184-bis del d.lgs. 152/2006 ad una analisi caso per caso, come anche precisato nell’articolo 1, comma 2 del citato decreto 264/2016, ai sensi del quale ‘i requisiti e le condizioni richiesti per escludere un residuo di produzione dal campo di applicazione della normativa sui rifiuti sono valutati ed accertati alla luce del complesso delle circostanze’. Pertanto, in merito ai requisiti ed alle condizioni che è necessario soddisfare per escludere un residuo di produzione dal campo di applicazione della normativa sui rifiuti e trattarlo come sottoprodotto è opportuno evidenziare come i medesimi debbano essere valutati ed accertati alla luce del complesso delle circostanze e devono essere soddisfatti in tutte le fasi della gestione dei residui, dalla produzione all’impiego nello stesso processo, o in uno diverso. Resta inteso, peraltro, che la qualifica di sottoprodotto non potrà mai essere acquisita in un tempo successivo alla generazione del residuo, non potendo un materiale inizialmente qualificato come rifiuto poi divenire sottoprodotto. Il possesso dei requisiti deve sussistere, dunque, sin dal momento in cui il residuo viene generato.

Dopo questa premessa giuridica, la risposta del Ministero si concentra sul caso sottoposto dall’ente locale salentino, per fornire una valutazione chiaramente poco entusiasmante per il richiedente, pur rimanendo lo stesso responso a un livello di probabilità e non di certezza: “da quanto descritto dall’istante parrebbe che venga effettuato un trattamento, a carattere sperimentale, sul fango cellulosico tramite l’utilizzo dell’impianto mobile di estrazione della cellulosa e il successivo trattamento di disidratazione con pressa a vite e lavaggio; detto utilizzo dell’impianto mobile sembrerebbe costituire una modifica del processo di trattamento finalizzata proprio ad ottenere tale tipo di materiali e pertanto ulteriore rispetto alla ‘normale pratica industriale‘ (lettera c, comma 1, art. 184-bis dlgs. 152/2006). Alla luce di quanto sopra, qualora il produttore dovesse classificare tali materiali come rifiuti, escludendo quindi la possibilità di attribuire loro la qualifica di sottoprodotto, si delineerà un’ipotesi di recupero di rifiuti, finalizzato al riutilizzo nella produzione di conglomerato bituminoso, che dovrà essere autorizzato ai sensi dell’art. 208 o, nel caso in cui si scelga di autorizzare l’impianto come impianto di ricerca e sperimentazione, dell’art. 211 del d.lgs. 152/2006, nel rispetto, per il caso specifico, dell’art. 184 ter del medesimo decreto legislativo.”

 

3) Il nodo irrisolto della “normale pratica industriale”

Salva, quindi, la ribadita centralità del ruolo del produttore nell’attività di classificazione di un residuo di produzione come rifiuto o come sottoprodotto – con tutte le responsabilità che ne derivano – ancora una volta un’ipotesi di gestione di un sottoprodotto, ossia di recupero di materia – in pratica, di attuazione dell’economia circolare – si arena nelle secche della normale pratica industriale.

Stavolta non si tratta di una sentenza (di condanna) della Cassazione che confina in spazi angusti l’ambito di operatività del controverso concetto in esame1, ma di un parere (il valore giuridico dell’interpello è questo, in sostanza) di un Ministero.

La sostanza giuridica dell’operazione interpretativa, però, non cambia.

Con buona pace di tutti coloro che vedono le sorti del modello circolare sempre più incerte, anche e soprattutto a causa di concetti normativi come la “normale pratica industriale”. Concetti ancora vaghi e contraddittori, specie nella loro compatibilità con altri principi, pure ormai codificati nel nostro ordinamento, come quello di “simbiosi industriale”, le cui “pratiche replicabili” dovrebbero ricevere addirittura “priorità” da parte del legislatore, come sancito dallo stesso art. 184 bis, D. Lvo 152\2006 dopo la riforma del 2020.2

 

4) La normale pratica industriale nell’interpretazione (molto diversa) della Commissione Europea

Con buona pace anzitutto della Commissione Europea, per dire, che ha avuto modo più volte di occuparsi di sottoprodotti in chiave interpretativa.

Nella prima occasione, ha affermato che “la catena del valore di un sottoprodotto prevede spesso una serie di operazioni necessarie per poter rendere il materiale riutilizzabile: dopo la produzione, esso può essere lavato, seccato, raffinato o omogeneizzato, lo si può dotare di caratteristiche particolari o aggiungervi altre sostanze necessarie al riutilizzo, può essere oggetto di controlli di qualità ecc.3

Su questa stessa falsariga argomentativa la Guidance on the interpretation of key provisions of Directive 2008/98 ha chiarito che sono consentiti tutti quegli interventi chenella catena del valore del sottoprodotto” risultano “necessari per poter rendere il materiale riutilizzabile”. La Commissione specifica in tal modo il concetto: il sottoprodotto “[…] può essere lavato, seccato, raffinato od omogeneizzato”, nonché “[…] dotato di caratteristiche particolari” con l’aggiunta di “[…] altre sostanze necessarie al riutilizzo […]”.

Il senso del discorso è chiaro: bisogna fare il possibile per evitare di sprecare materia e produrre rifiuti; anche in ossequio al principio fondamentale dell’ordinamento comunitario in questa materia: la riduzione, a mezzo di prevenzione, dei rifiuti stessi.4 Sempre garantendo un elevato livello di tutela dell’ambiente e della salute, naturalmente.

Un discorso tanto semplice, in teoria, quanto evidentemente difficile da realizzare in pratica.

Brindisi, 14\4\2023

Stefano Palmisano

 

1La Cassazione affermò che “in tema di sottoprodotto, vanno esclusi dal concetto di ‘normale pratica industriale’ tutti gli interventi manipolativi del residuo, anche ‘minimali’, diversi da quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale esso viene utilizzato.” Tra questi interventi minimali rientrerebbero “la cernita, la vagliatura, la frantumazione o la macinazione, in quanto idonee a determinare una modificazione della originaria consistenza della sostanza;”1 i quali costituirebbero a giudizio del Supremo Collegio vero e proprio “trattamento”, con la fatale conseguenza di far sprofondare gli scarti in questione nel mondo dei rifiuti. (Cass. pen., Sez. III, 17/04/2012, n. 17453)

2Per non dire del ruolo non proprio centrale attribuito a norme che pure sembrerebbero aprire margini importanti in chiave di approccio estensivo al concetto di normale pratica industriale come quella di cui all’art.6, c. 2, D.M. 264\2016, a tenore del quale: “Rientrano, in ogni caso, nella normale pratica industriale le attività e le operazioni che costituiscono parte integrante del ciclo di produzione del residuo, anche se progettate e realizzate allo specifico fine di rendere le caratteristiche ambientali o sanitarie della sostanza o dell’oggetto idonee a consentire e favorire, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e a non portare ad impatti complessivi negativi sull’ambiente.

3Comunicazione interpretativa della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo sui rifiuti e sui sottoprodotti datata 21 febbraio 2007

4Direttiva 2008/98, Articolo 4, Gerarchia dei rifiuti