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Sottoprodotti o della cultura del sospetto

Residui di produzione che vengono degradati in via autoritativa da sottoprodotti a rifiuti: storia di un sospetto diventato provvedimento amministrativo. Annullato prima dal Tar e poi dal Consiglio di Stato. E i residui tornano sottoprodotti.

L’Ufficio delle Dogane di Genova riclassifica d’imperio una partita di sfridi di produzione pronti per l’esportazione da sottoprodotti a rifiuti: sulla base di un mero sospetto. Il Tar annulla il provvedimento. L’ente pubblico fa appello al Consiglio di Stato: che lo rigetta e condanna le Dogane a pagare le spese di giudizio.

Indice

  1. Sospetto e indizio: così vicini, così lontani. In uno Stato costituzionale.

  2. La storia: gli sfridi di calzature che destano sospetto

  3. La sentenza del Tar: un provvedimento illegittimo…

  4. e “inutilmente gravatorio”

  5. L’appello dell’ente pubblico: errare humanum est, perseverare autem…

  6. La sentenza del Consiglio di Stato: sottoprodotti al di sopra di ogni sospetto

  7. Conclusioni

1) Sospetto e indizio: così vicini, così lontani. In uno Stato costituzionale.

Secondo la Corte di Cassazione penale, “il ‘sospetto’ è una nozione che oscilla tra due estremi semantici, ovvero tra il significato di fenomeno soggettivo, congettura, quindi di ipotesi senza prove, o meglio, alla ricerca di prove, ed il significato di indizio equivoco, e quindi debole […] Al contrario, gli ‘indizi’ sono gli elementi probatori raggiunti attraverso un ragionamento inferenziale, che partendo da un fatto noto (indizio) conduce ad un fatto ignoto (il fatto da provare).1

Il che vuol dire, detta in maniera semplice, che sulla base di un mero “sospetto” in uno Stato di diritto non si potrà e non si dovrà mai condannare nessuno, per nessun tipo di reato.

In uno Stato di diritto, però, forse non dovrebbe essere proprio normale neanche che, in forza essenzialmente di un sospetto – ossia di una congettura, per dirla con le parole della Suprema Corte – un ente pubblico adotti un provvedimento autoritativo; almeno in uno Stato la cui Carta Costituzionale sancisce l’obbligo di buon andamento e imparzialità della Pubblica Amministrazione2.

2) La storia: gli sfridi di calzature che destano sospetto

Evidentemente, alla Sezione Antifrode e Controlli dell’Ufficio delle Dogane di Genova 2 non la pensano così.

La vicenda accade in ambito di sottoprodotti, che a quanto pare si conferma territorio d’elezione, suo malgrado, della cultura del sospetto, nel più vasto panorama della normativa ambientale italiana.

L’ente pubblico in questione, infatti, con un proprio provvedimento dello scorso anno riclassificava una certa quantità di sfridi di produzione di un’azienda lombarda dalla categoria di sottoprodotto a quella di rifiuto, invitando la stessa impresa che ne aveva organizzato la spedizione all’estero, al soggetto acquirente, a riprendersi i presunti rifiuti e a conferirli in un idoneo impianto di smaltimento.

Si trattava, più precisamente, di scarti di lavorazione dell’attività di stampe di materie plastiche e per calzature tramite iniezione, in cui era utilizzata come materia prima il materiale poliuretano termoplastico (TPU) A. 75 Shore.

La peculiarità della storia, però, sta nella motivazione del provvedimento in esame: il “sospetto che i residui presentati in dogana per l’esportazione, pure essendo sottoprodotti derivanti da processi produttivi, non continuino ad essere impiegati in un processo produttivo, in quanto la merce viene inviata al soggetto M.C. di H.K. la cui attività principale risulta essere quella di ‘general trading’ né sono stati forniti dati dell’azienda che effettivamente reimpiegherebbe il materiale in questione“.

Questo nonostante la verifica fisico-chimica della merce, disposta al fine di appurare se gli sfridi fossero da considerarsi “rifiuti” ai sensi della normativa eurounitaria3 – e quindi riconducibili alla relativa voce doganale – piuttosto che un sottoprodotto/materia prima secondaria, come invece dichiarato dal privato. Verifica che aveva confermato la versione dell’azienda, giacché avevachiarito che il prodotto è un materiale di recupero/sfrido di lavorazione di una sola materia termoplastica, che può essere considerata materia prima secondaria

3) La sentenza del Tar: un provvedimento illegittimo…

Il provvedimento delle Dogane, di conseguenza, era stato annullato dal Tar competente adito dall’azienda produttrice.4

Scrive il Consiglio di Stato – nella pronuncia che si esaminerà meglio a breve – che nella sentenza di primo grado era stata “valutata la correttezza ed esaustività delle informazioni contenute nella scheda tecnica, la circostanza che l’acquirente del materiale abbia pagato un prezzo costituisce un ulteriore indizio dell’utilizzo del materiale come materia prima secondaria (cfr. l’art. 5 commi 3 e 4 del D.M. Ambiente 13.10.2016, n. 264), posto che, diversamente, il corrispettivo per il suo (illecito) smaltimento sarebbe stato verosimilmente pagato dal produttore del rifiuto.”

Ancora, era “stato fatto riferimento alla circolare del Ministero dell’Ambiente 30.5.2017, n. 7619, esplicativa ai fini dell’applicazione del D.M. 13 ottobre 2016, n. 264, che per un verso ha cura di precisare come ‘ogni soggetto che interviene lungo la filiera sia tenuto alla dimostrazione dei requisiti richiesti dalla legge per la qualifica come sottoprodotto limitatamente a quanto sia nella propria disponibilità e conoscenza, non essendo esigibile una estensione degli oneri probatori a fasi rispetto alle quali il soggetto medesimo non ha possibilità di verifica e controllo’; per altro verso come ‘la certezza dell’utilizzo possa venire dimostrata tramite indici rivelatori che – soprattutto in concorso tra loro – siano in grado rendere affidabile una valutazione prognostica circa il prodursi di un evento futuro, consistente nel successivo utilizzo.

4) … e “inutilmente gravatorio”

Infine, era stato “osservato che le informazioni contenute nella scheda tecnica del prodotto circa le sue caratteristiche ed il relativo ciclo di produzione (cfr. l’acquisto degli appositi macchinari “granulatori”) – la cui correttezza è stata convalidata all’esito della specifica istruttoria svolta dal laboratorio di analisi dell’ufficio Antifrode e Controlli dell’Agenzia – unitamente a tutta la documentazione contrattuale (contratto di acquisto, bonifico e fattura) appaiono univoci e adeguati nel supportare una valutazione prognostica circa il successivo utilizzo del prodotto come materia prima secondaria, sicché il provvedimento impugnato appare inutilmente gravatorio.

Nonostante il singolare riferimento alla specie di materia prima secondaria – ormai sostituita nella nostra legislazione dalle più penetranti categorie di sottoprodotto e di cessazione di fine rifiuto – la sentenza del Tar ligure risultava evidentemente solida.

5) L’appello dell’ente pubblico: errare humanum est, perseverare autem …

Ciononostante, alle Dogane di Genova non sono riusciti a farsi una ragione dell’annullamento del loro provvedimento “inutilmente gravatorio” e hanno interposto contro la pronuncia del Tribunale un appello al Consiglio di Stato che quindi vantava, a priori, ottime probabilità di risultare ancor più inutilmente gravatorio.

E così è stato.

Il gravame era fondato sostanzialmente su alcuni documenti prodotti dall’azienda in sede di procedimento amministrativo che, secondo la P.A., avrebbero attestato la correttezza dell’operato dello stesso ente pubblico e sarebbero stati invece ignorati dal Tar. In particolare, si trattava: “1) di un documento prodotto in risposta alla richiesta di esibire la prova di pagamento; documento riportante la maggior parte delle indicazioni in cinese e non accompagnato da traduzione; 2) di una dichiarazione firmata da M.L. in cui si attesta che il materiale è destinato ad essere riutilizzato nell’industria delle calzature. Nel documento non era esplicitato se l’operazione di riutilizzo venisse effettuata dalla stessa società M. o da altra ditta; 3) di un contratto tra l’azienda produttrice degli scarti e il destinatario della merce ai sensi dell’art. 18 comma 2 del Reg. (CE) 1013/2006.

Tali documenti e le dichiarazioni presentati dalla società produttrice degli sfridi non avrebbero chiarito, secondo la versione delle Dogane, l’effettiva destinazione finale della merce, per la quale sarebbe stato indicato genericamente il riutilizzo nell’industria delle calzature, senza che venisse dimostrato/provato se tale operazione sarebbe stata effettuata direttamente dal destinatario o da altro soggetto.

In particolare, la Pubblica Amministrazione asseriva che l’azienda avrebbe depositato un contratto – stipulato con l’acquirente dei residui – redatto ai sensi dell’art.18 comma 2 del Reg. (CE) 1013/2006, che riguardava espressamente le spedizioni di rifiuti e non avrebbe fornito la prova riguardo la natura di materia prima secondaria ossia di materiale riutilizzabile.

6) La sentenza del Consiglio di Stato: un sospetto che viene dissolto; un provvedimento che viene annullato; una P.A. che viene condannata a pagare le spese.

Come già anticipato, l’appello viene totalmente rigettato dal Consiglio di Stato5 sulla base di una lunga e articolata serie di motivazioni.

Anzitutto, il collegio di Palazzo Spada avalla l’impostazione del Tar per cui si trattava di sottoprodotto, “valutando le specifiche circostanze del caso concreto a partire dal certificato di analisi 17.12.2020 del laboratorio dell’Ufficio Antifrode e Controlli dell’Agenzia.”

A fronte di questo, l’atto d’appello delle Dogane “non ha smentito le precise argomentazioni e circostanze fattuali contenute nella sentenza appellata”.

E qui il Consiglio non risparmia una notazione fondamentale ai fini della comprensione e della valutazione del complessivo operato dell’Uffico delle Dogane in questa vicenda: “anche considerando che lo stesso provvedimento amministrativo impugnato in primo grado ha espressamente stabilito che trattasi di materiale che ha in sé le caratteristiche di sottoprodotto e che pertanto tale punto non è oggetto di controversia.

Il Consiglio di Stato prosegue affermando che non sussiste neanche “la lamentata violazione dell’art. 5 del decreto 13 ottobre n.264 del 2016” perché “con la sentenza appellata è stato fatto riferimento a circostanze che specificamente escludono l’intenzione, l’atto o il fatto di disfarsi del materiale in questione.”

Ancora, il Collegio rammenta che “l’art. 5 del D.M. n. 264 del 13 ottobre 2016 citato stabilisce che tra le circostanze da cui si può desumere la natura del sottoprodotto possono essere valutate le condizioni della cessione del sottoprodotto che devono risultare vantaggiose e assicurare la produzione di una utilità economica o di altro tipo.” Ebbene, anche queste specifiche circostanze contrattuali, da cui deriva un vantaggio economico per l’azienda produttrice degli sfridi, “sono state correttamente apprezzate con la sentenza appellata, come sopra evidenziato”.

Il Consiglio incalza: le Dogane non hanno “smentito l’esistenza di un mercato del sottoprodotto in questione, tale da utilizzare tale sottoprodotto per produrre nuovi prodotti”, come documentato dall’azienda che ha fatto addirittura “specifico riferimento a società iscritte nell’elenco degli utilizzatori dei sottoprodotti di cui all’art. 10 del D.M. n. 264 del 2016”.

Infine, sotto il nodale profilo della certezza dell’utilizzo del residuo di produzione, il Collegio cita “il documento ‘Declaration’ in cui l’acquirente dichiarava che “la merce contenuta nei containers … di cui alla fattura n. (…) verrà utilizzata per lo stampaggio nel settore produttivo della calzatura.”

La conclusione di questa singolare vicenda processuale non poteva essere che una: “Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Settima), definitivamente pronunciando sull’appello, come in

epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l’amministrazione alle spese del grado d’appello nella misura di euro 4.000/00 (Quattromila/00) oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

7) Conclusioni

In questo blog ho trattato più volte della normativa dei sottoprodotti, e in particolare della relativa giurisprudenza.

Ho messo in evidenza la natura di deroga e di favore di quella regolamentazione rispetto a quella generale dei rifiuti, e di conseguenza la necessità di una gestione pulita e rigorosa di questi strumenti da parte degli operatori economici; per come questi elementi emergevano dalle sentenze commentate.

Ho rimarcato che, invece, che quelle stesse pronunce giurisrudenziali dimostrano che in questo paese, troppo spesso, anche una normativa come quella in materia di sottoprodotti ispirata a principi alti, nobili e vitali di natura economica ed ecologica è terreno di scorribande da parte degli immancabili “ecofurbi”; o, per meglio dire, degli ecocriminali seriali.

Premesso tutto questo, il metodo più serio e conforme a uno Stato di diritto per contrastare quelle scorribande non può essere la cultura del sospetto assurta a principio ispiratore – quando non proprio a espressa base motivazionale, come nel caso esaminato in questo articolo – dell’agire dei poteri pubblici e del conseguente, discutibilissimo, impiego di risorse pubbliche.

Non lo consentono i principi costituzionali cui facevo riferimento sopra.

Ma, prim’ancora, non lo permettono il concetto di Stato di diritto e lo stesso buon senso.

E non lo ammette la necessità – codificata dall’Unione Europea, quindi cogente anche per questo Stato, in tutte le sue articolazioni – di sviluppare l’economia circolare in ogni sede e in ogni modo: a partire dal suo contesto d’elezione, ossia la simbiosi industriale.6

Il che vuol dire, anzitutto, evitare di uccidere nella culla i suoi strumenti fondamentali: come i sottoprodotti, per l’appunto.

Avv. Stefano Palmisano

 

Per consulenze e assistenza giudiziale in materia di normativa dei sottoprodotti e diritto dell’economia circolare: palmi.ius@avvstefanopalmisano.it

 

1Corte di Cassazione, sentenza 14 ottobre 2020, n. 28559

2Art. 97, Cost.

3Di cui al Reg. CE n. 1031/2006

4Tar Liguria n. 253 del 23 marzo 2021

5Cons. Stato, Sez. VII, Sent., (data ud. 08/02/2022) 24/02/2022, n. 1336

6Sul punto: https://www.renewablematter.eu/articoli/article/simbiosi-industriale-gioco-di-squadra-per-la-transizione-circolare