Due diligence direttiva Ue

Due diligence ambientale: importanti novità per le aziende

La Commissione Europea ha presentato, quasi un anno fa, la Proposta di direttiva sul dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità. Con questo articolo, iniziamo un percorso di analisi di questo fondamentale testo normativo per il diritto ambientale dell’Unione Europea, delle sue potenzialità e delle sue criticità. L’ultimo pezzo sarà dedicato alla legge tedesca sulla due diligence, in vigore dal 1 gennaio scorso, che ha anticipato la riforma europea per le aziende di quel Paese e per quelle rientranti nella loro catena di fornitura, ovunque collocate; quindi anche per quelle italiane che commerciano con la Germania. Questo ciclo di articoli costituirà anche una preparazione a un’importante iniziativa di formazione sul tema organizzata, per il marzo prossimo a Bari, dalla Camera di Comercio Italiana per la Germania, da Confindustria Bari, dallo Studio Legale Dolce – Lauda, di Francoforte, e dallo Studio Legale di chi scrive.

Indice

Due diligence ambientale: la proposta di Direttiva

Due diligence ambientale: l’insufficienza dell’ “autocontrollo” aziendale

Due diligence ambientale: un altro tassello dell’economia sociale e sostenibile di mercato

Il dovere di diligenza nelle politiche delle società

Le prime critiche della dottrina

Due diligence ambientale: gli obblighi per gli amministratori delle società

Conclusioni provvisorie

 

Due diligence ambientale: la proposta di Direttiva

Le imprese europee avranno presto a che fare con una nuova normativa dell’Unione Europea che inciderà in maniera profonda nella loro attività.

E’ la Proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità pubblicata il 23 febbraio 2022 dalla Commissione Europea.

Si tratta di un testo legislativo che stabilisce:

a) obblighi rispetto agli impatti negativi sui diritti umani e agli impatti ambientali negativi, siano essi effettivi o potenziali, che incombono alle società nell’ambito delle loro attività, delle attività delle loro filiazioni e delle attività nella catena del valore svolte da soggetti con cui la società intrattiene un rapporto d’affari consolidato e;

(b) responsabilità delle violazioni di detti obblighi1.

Me ne sono già occupato in questo blog in modo sintetico, ma da oggi iniziamo un percorso di approfondimento degli aspetti più significativi di questo testo normativo.

Due diligence ambientale: l’insufficienza dell’ “autocontrollo” aziendale

Per cogliere i principi ispiratori e le finalità di questa legislazione, si deve far riferimento, come sempre, ai “Considerando” della nascitura direttiva.

Ancor prima di questi, però, nel caso in questione è opportuno citare le motivazioni di fondo che la Commissione adduce nel primo punto della Relazione introduttiva al testo normativo in questione, al punto 1, “Contesto della proposta – Motivi e obiettivi della proposta”.

Si riportano integralmente i due paragrafi della relazione, perché sono illuminanti.

Per lo più le società di grandi dimensioni ricorrono sempre più a processi di diligenza, in quanto possono offrire loro un vantaggio competitivo. Questa linea risponde anche alla crescente pressione esercitata dal mercato sulle società affinché agiscano in modo sostenibile, in modo da poter scongiurare rischi reputazionali indesiderati nei confronti dei consumatori e degli investitori, sempre più consapevoli degli aspetti legati alla sostenibilità. Tuttavia tali processi si basano su norme volontarie e non creano certezza del diritto né per le società né per le vittime in caso di danni.

L’azione volontaria non sembra aver portato a miglioramenti su vasta scala in tutti i settori e, di conseguenza, si osservano, sia all’interno che all’esterno dell’Unione, esternalità negative derivanti dalla produzione e dal consumo dell’UE. Alcune società dell’UE sono state associate a impatti negativi sui diritti umani e a impatti ambientali negativi, anche nelle catene del valore cui partecipano Gli impatti negativi comprendono, in particolare, questioni relative ai diritti umani quali il lavoro coatto, il lavoro minorile, l’inadeguatezza delle condizioni di igiene e sicurezza sul lavoro, lo sfruttamento dei lavoratori, e impatti ambientali quali le emissioni di gas a effetto serra, l’inquinamento o la perdita di biodiversità e il degrado degli ecosistemi.

Posta in questi termini estremamente franchi, parrebbe trovarsi di fronte, in sostanza, a un’altra forma di fallimento del mercato che rende l’intervento pubblico, a mezzo di strumenti cogenti, ineludibile in chiave di tutela effettiva di un bene giuridico primario. E, in questa fase, l’ambiente è il bene primario per definizione.

Due diligence ambientale: un altro tassello dell’economia sociale e sostenibile di mercato

Per giungere ai “Considerando” della Proposta di direttiva, cui si faceva cenno prima, tra i primissimi se ne trovano due particolarmente significativi.

I principi di riferimento in quest’ambito sono quelli fondativi dell’Unione: un “elevato livello di protezione e il miglioramento qualitativo dell’ambiente e la promozione dei valori fondamentali europei.” Valori fondamentali tra cui spicca “l’economia sociale di mercato europea per realizzare una transizione giusta alla sostenibilità.”

Ciò posto, “la condotta delle società in tutti i settori dell’economia è fondamentale per il successo degli obiettivi di sostenibilità dell’Unione, in quanto le imprese dell’Unione, in particolare quelle di grandi dimensioni, dipendono dalle catene globali del valore. Tutelare i diritti umani e l’ambiente va anche nell’interesse delle società, in particolare alla luce delle crescenti preoccupazioni espresse dai consumatori e dagli investitori in merito a tali questioni.”

Il passaggio successivo è dedicato alle “norme internazionali vigenti in materia di condotta d’impresa responsabile”, le quali “specificano che le società dovrebbero tutelare i diritti umani e stabiliscono le modalità con cui dovrebbero inserire la protezione dell’ambiente in tutte le attività che svolgono e le catene del valore cui partecipano. I principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani riconoscono la responsabilità delle società di esercitare la diligenza in materia di diritti umani individuando, prevenendo e attutendo gli impatti negativi delle loro attività sui diritti umani e rendendo conto delle modalità con cui parano tali impatti.”

Tra quelle norme internazionali, quelle fondamentali sono senz’altro le linee guida Ocse, che hanno definito “il concetto di diligenza in materia di diritti umani”, perché “destinate alle imprese multinazionali” e perché “hanno esteso l’applicazione del dovere di diligenza ai temi dell’ambiente e della governance.”

 

Il dovere di diligenza nelle politiche delle società

Venendo all’esame del testo della prossima direttiva – già anticipato all’inizio di questo scritto con il riferimento all’art. 1 – in questa sede mi limiterò agli articoli 4 e 5.

Il primo descrive e circoscrive il “Dovere di diligenza”, affermando che “gli Stati membri provvedono a che ciascuna società eserciti il dovere di diligenza in materia di diritti umani e di ambiente […] mediante:

(a) integrazione della diligenza nelle proprie politiche in conformità dell’articolo 5;

(b) individuazione degli impatti negativi effettivi o potenziali in conformità dell’articolo 6;

(c) prevenzione e attenuazione degli impatti negativi potenziali e arresto degli impatti negativi effettivi e minimizzazione della relativa entità in conformità degli articoli 7 e 8;

(d) instaurazione e mantenimento di una procedura di reclamo in conformità dell’articolo 9;

(e) monitoraggio dell’efficacia della politica e delle misure di diligenza in conformità dell’articolo 10;

(f) comunicazione pubblica sul dovere di diligenza in conformità dell’articolo 11.”

Il secondo comma puntualizza il ruolo degli Stati in chiave di garanzia del dovere di diligenza delle aziende sancendo che gli stessi “provvedono a che, ai fini del dovere di diligenza, ciascuna società abbia il diritto di condividere risorse e informazioni all’interno del gruppo di società di cui è parte e con altri soggetti giuridici, nel rispetto del diritto della concorrenza applicabile.”

L’articolo 5 – “Integrazione del dovere di diligenza nelle politiche della società” – impone un altro obbligo qualficante agli Stati membri: essi “provvedono a che ciascuna società integri il dovere di diligenza in tutte le politiche aziendali e abbia predisposto una politica del dovere di diligenza.” La politica del dovere di diligenza viene specificata in questo senso: essa “prevede tutti gli elementi seguenti:

a) descrizione dell’approccio della società al dovere di diligenza, anche a lungo termine;

b) codice di condotta che illustra le norme e i principi cui devono attenersi dipendenti e filiazioni della società;

c) descrizione delle procedure predisposte per l’esercizio del dovere di diligenza, comprese le misure adottate per verificare il rispetto del codice di condotta ed estenderne l’applicazione ai rapporti d’affari consolidati.”

L’articolo si chiude con un’altra stringente previsione in ordine ai compiti degli Stati membri: “provvedono a che ciascuna società aggiorni la politica del dovere di diligenza a cadenza annuale.

Sul resto di questo articolato torneremo in successivi contributi.

 

Le prime critiche della dottrina

Sin d’ora, però, è il caso di annotare che già su alcune delle previsioni esaminate in questo scritto si sono formulate varie critiche di alcuni commentatori.

In particolare, quella sottoposta a uno scrutinio serrato è la nozione di “rapporto d’affari consolidato”, che ho riportato all’inizio di questo articolo.

Si è affermato che “l’elemento sostanziale, che l’attuale formulazione della proposta di direttiva pare non cogliere, è che possono sussistere situazioni in cui le operazioni, prodotti o servizi di una impresa sono direttamente collegati con l’impatto negativo sui diritti umani di enti terzi con i quali l’impresa può non avere una stabile relazione commerciale: ed il tipico esempio è proprio quello delle catene di approvvigionamento. Insomma, la terminologia impiegata dalla proposta della Commissione rischia di tagliare fuori dall’ambito di applicazione della futura direttiva gli impatti negativi derivanti da relazioni d’affari non durature ma comunque caratterizzate da impatti gravi e severi sui diritti umani o l’ambiente.

E si è concluso dallo stesso autore, con ragionamento che pare tutt’altro che fantasioso, che “per assurdo, l’utilizzo di tale criterio può condurre a meccanismi di incentivo al contrario: se le relazioni non durature non sono incluse nell’ambito di applicazione della direttiva, le imprese potranno cambiare regolarmente i fornitori per evitare di creare rapporti commerciali duraturi e di … ‘incappare’ nelle maglie degli obblighi di due diligence e delle responsabilità ad essi associate.”

 

Due diligence ambientale: gli obblighi per gli amministratori delle società

D’altro canto, è degli ultimissimi giorni la notizia che ormai il mondo dell’industria e della finanza pare aver già messo in agenda gli obblighi che deriveranno alle imprese dalla direttiva sulla due diligence.

Assonime, l’Associazione fra le società italiane per azioni, ha appena presentato uno studio che analizza le responsabilità degli amministratori previste dalla nuova normativa europea.

Vi si leggono proposizioni difficilmente equivocabili: “il quadro normativo europeo e le sue prossime evoluzioni (direttiva sulla due diligence in materia di ambiente e diritti umani, direttiva sul report di sostenibilità, disciplina sulla sostenibilità per gli intermediari finanziari e bancari) stanno delineando una nuova dimensione per la grande impresa europea. Questa evoluzione è già in atto per le società quotate, per le quali la pressione del legislatore e del mercato hanno spinto i consigli di amministrazione a identificare le opportunità e i rischi cd. non finanziari, ma le ormai prossime discipline europee introdurranno ulteriori fattori di cambiamento, rappresentati da obblighi di due diligence in ambito ambientale e sociale; dall’ampliamento dei doveri fiduciari degli amministratori; dall’obbligo di adozione di un piano per la strategia climatica; da rafforzati obblighi di trasparenza sull’informativa di sostenibilità.

Lo studio mette in evidenza, inoltre, un dato di estremo interesse relativo all’ambito di applicabilità della direttiva, quasi in chiave di risposta ad altre critiche che hanno investito lo stesso punto.

Seppure il regime degli obblighi riguardi solo la grande impresa, ad eccezione degli obblighi di reporting per le PMI quotate, i cambiamenti interessano anche le imprese medie e piccole, in ragione della crescente domanda di informazioni sulla sostenibilità per l’accesso ai canali di finanziamento tradizionali e della partecipazione a catene di valore delle imprese di grandi dimensioni.

Se ne ricava, conclusivamente, che “la rilevanza dei profili di sostenibilità socio-ambientale comporta un ampliamento degli interessi e dei rischi che l’organo consiliare deve considerare, valutare e integrare nelle strategie e nella governance.”

 

Conclusioni provvisorie

Il lavoro di analisi della proposta di direttiva sulla due diligence con questo articolo è solo cominciato.

Ma, soprattutto, è lo stesso testo licenziato dalla Commissione che pare ancora in fieri, dato che sta attraversando il suo fisiologico iter legislativo.

Quindi, non è ancora dato sapere dove, come e quando approderà quel percorso di legiferazione.

Tanto precisato, e ribadite le incognite che gravano sull’articolato – di cui si è dato sopra un esempio – quello che ormai si può dare per acquisito è che questo pezzo del pianeta Terra che si chiama Unione Europea sta provando, pur tra varie difficoltà e contraddizioni, a consolidare il suo primato mondiale in materia di tutela ambientale e dei diritti umani.

Il frutto di quest’operazione, limitatamente all’argomento di questo scritto, è un diritto ambientale che sarà sempre più intrecciato, in modo strutturale, con il diritto dell’impresa nel suo complesso, con il quale dovrà interagire in chiave di sistematica ricerca di bilanciamento di interessi e di punti di equilibrio.

Una regolamentazione ambientale che conferma, quindi, la sua naturale vocazione “multilivello”, ma al cui cuore, a quanto pare, ci saranno ancora normative pubbliche e cogenti.

Ciononostante, o forse soprattutto per questo, quel diritto dovrà diventare patrimonio comune, o quantomeno terreno di interesse, non solo degli addetti ai lavori giuridici, ma anche degli addetti ai lavori industriali.

26\1\2023

Stefano Palmisano

 

Per consulenze e assistenza in diritto ambientale e dell’economia circolare, scrivi a: palmi.ius@avvstefanopalmisano.it

 

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